Il carciofo

Ortaggio tipicamente mediterraneo, il carciofo è un vanto proprio del nostro Paese che ne è uno dei maggiori coltivatori in campo mondiale e che ad esso ha riservato un posto d’onore in gastronomia, cucinandolo in cento diverse maniere: ripieno, fritto, in insalata, in umido, al forno, e poi ancora in risotti e pastasciutte, oppure in abbinamento alle uova, ai formaggi, al pesce.

Quanto alle sue proprietà sono moltissime: è tonico, diuretico, stomachico, colagogo, febbrifugo, antireumatico, disintossicante, ma soprattutto fa bene a tutti coloro che hanno problemi di origine epatica. Qui però occorre fare una precisazione: la famosa cinarina, questa preziosa sostanza tanto benefica per il fegato non è contenuta, come comunemente si crede, nel cuore commestibile del carciofo, bensì proprio nelle parti amare che non si mangiano, cioè nelle foglie e in misura minore negli steli e nelle radici. Certo non possiamo per questo metterci a mangiare  le dure foglie del carciofo e neppure è pensabile di berne l’amarissimo decotto: lasciamo dunque all’industria farmaceutica il compito di estrarne principi attivi e di sfruttarli poi a scopo terapeutico. Noi limitiamoci ad inserire abbondantemente il carciofo nella nostra alimentazione perché, se anche le parti che noi mangiamo non contengono la preziosa cinarina, sono però ricche di tante altre sostanze benefiche che aiuteranno il nostro organismo a mantenersi in buona salute e tra l’altro non faremo che gratificare in tal modo anche il palato col sapore delizioso e raffinatissimo dell’amico carciofo.
Per sfruttarne a pieno le preziose proprietà, la cosa migliore è mangiarli crudi, principio valido d’altronde per tutte le verdure. Solo però se giovani e tenerissimi, i carciofi sono adatti ad essere consumati crudi: tagliati sottilissimi e conditi con sale ed ottimo olio d’oliva, costituiranno una deliziosa insalata. In tutti gli altri casi non rimane che cuocerli e qui, oltre alle tipiche e raffinate preparazioni che la gastronomia ci propone, il metodo migliore per conservare i loro benefici contenuti è certo quello della cottura a vapore.

Proprietà
In cucina: bisogna prestare particolare attenzione nell’acquisto di questo ortaggio: il carciofo fresco e tenero non solo è più buono e saporito, ma anche più facilmente digeribile. Infatti, un carciofo vecchio e con le foglie coriacee ha in sé anche alcune sostanze indigeste. Ecco dunque alcuni suggerimenti per la scelta di un buon carciofo. Attenzione a quelli che hanno le foglie aperte o sono di colore scuro: i carciofi più teneri hanno le foglie ben chiuse e sono di colore verde tenue uniforme, senza le tipiche macchie nerastre alle estremità che ne denotano l’età. Un piccolo trucco: provate a togliergli una foglia esterna, se si staccherà facilmente lasciando una “cicatrice” chiarissima, quasi bianca, potrete stare tranquilli: il vostro carciofo è tenerissimo. Ricordate poi che i carciofi migliori sono quelli più pesanti e ben sodi al tatto.
Infine è bene evitare di conservare troppo a lungo i carciofi una volta cotti: il colore verdastro che il carciofo cotto prende dopo qualche tempo, indica che in esso si sono sviluppate pericolose tossine.

Per la salute: delle benefiche proprietà del carciofo come alimento ne abbiamo già parlato. Diamo la ricetta del “vino al carciofo”, ottimo digestivo e diuretico: si lasciano macerare per 5 giorni 20 grammi di foglie fresche di carciofo in 1 litro di vino bianco secco, poi si filtra e si versa il ricavato in una bottiglia con chiusura ermetica. Si potrà rendere più amabile dolcificando con del miele.

Insalata: requisiti e preparazione

L’insalata occupa un posto di tutto rispetto ad ogni portata: come antipasto stimola l’appetito, come primo piatto (mista ad altri gustosi componenti) fa bella figura, come accompagnamento al secondo piatto costituisce un piacevole intervallo per il nostro stomaco, che deve mettersi al lavoro, e contemporaneamente permette di fare onore al formaggio e alla frutta.

Vediamo un po’ come si prepara l’insalata.
Innanzitutto occorre acquistare cespi freschissimi ed evitare di conservarli troppo a lungo, anche se in luoghi freddi, poiché il loro valore nutritivo diminuisce col passare del tempo. Come si lava? Si super-lava. Non c’è nulla di più antipatico che masticare granelli di oscura origine, rimasti tenacemente attaccati proprio al boccone che stiamo gustando, a causa della trascuratezza della lavatura, operazione tutto sommato rapidissima, soprattutto se si usa l’apposito cestello-centrifuga che asciuga l’insalata.

L’insalata andrebbe mondata e preparata poco prima di essere portata a tavola. Ma se per ragioni di tempo questa operazione deve essere fatta in anticipo, ecco un sistema per non farla avvizzire: lavare accuratamente foglia per foglia, e rilavarle insieme due volte, con l’apposito cestino. Strizzarle col classico strofinaccio e poi, col medesimo, fare un fagotto a quattro nodi e infilarlo in frigorifero: le foglie si manterranno perfettamente lisce e conserveranno il “croc-croc” che distingue l’insalata fresca da quella che non lo è.
Se alla classica insalata verde si aggiungono altre verdure come zucchine, carote, cipolle ecc., anch’esse da preparare in anticipo, il segreto per avere tutto croccante è presto svelato: lavare e asciugare le verdure (tagliarle se si vuole) e metterle in frigorifero, almeno due ore prima di servirsene, dentro ad una bacinella con acqua e cubetti di ghiaccio. Al momento di preparare il piatto queste verdure avranno l’aspetto e il sapore della verdura appena colta dall’orto.

Sempre per quanto riguarda le insalate in genere, c’è un altro piccolo accorgimento, quello di condire sempre le nostre insalate nella stessa insalatiera, che col passare del tempo si impregna dell’odore del condimento.

Una volta che la nostra insalata è stata mondata, lavata, asciugata e posta nell’apposita insalatiera, non resta che condirla, tenendo presente che qualsiasi condimento o salsa deve valorizzare l’insalata e non stravolgere il suo sapore. Questo, naturalmente, se si vuole mangiare solo un piatto di verdura fresca. Se invece si vuole fare qualche cosa di diverso, colorato, allegro, allora non c’è che l’imbarazzo della scelta: l’unico elemento invariabile, di ogni e qualsivoglia insalata mista, è e rimane il sale.
Infatti, possiamo variare la qualità dell’olio, più o meno saporito, più o meno grasso, del Garda o delle Puglie, ligure o toscano. Possiamo ancora scegliere tra il limone (particolarmente indicato per la lattuga) e l’aceto. E, per l’aceto, possiamo scegliere tra quello rosso, quello bianco, quello di champagne, quello balsamico, quello aromatico, e chi più ne ha più ne metta.
Oppure possiamo addirittura sopprimere olio e aceto e mettere sale, creme, yoghurt ecc.

I piatti freddi

Nell’epoca in cui viviamo i piatti freddi possono acquistare un valore diverso e una particolare importanza, perché hanno il vantaggio di poter essere preparati con un notevole anticipo: anticipo che va ovviamente a vantaggio della padrona di casa. Infatti molte volte la preoccupazione per la riuscita di una portata crea momenti di tensione che si ripercuotono soprattutto sugli ospiti; si perde così il piacere di stare insieme e di passare delle ore spensierate.

Valutiamo ora che cosa s’intende per piatti freddi. Non bisogna lasciarsi ingannare dall’aggettivo “freddi” perché alla base di ogni ricetta c’è sempre un ingrediente fondamentale cotto: la carne, per un vitello tonné, la gelatina per un aspic, la salsa di copertura per un pesce, ecc.

Ma valutiamo ora quali sono i veri protagonisti dei piatti freddi. Senza dubbio avremo nomi prevalentemente stranieri, perché il gusto, lo stile, la fantasia nelle composizioni ci viene da oltralpe. La Francia di Luigi XIV ne è l’esempio più emblematico; allora le portate arrivavano ad essere più di cinquanta, esistevano degli assaggiatori coadiuvati da vari aiutanti, e i cuochi reali (che erano più di 300) consideravano un fatto d’onore la riuscita di un soufflé.

La gelatina
La fresca, fragante, limpida gelatina. Quella che stuzzica gli appetiti più ritrosi, quella che ricopre delicatamente piatti di carni, pesci e verdure. La parola è di origine latina e deriva dal verbo gelare. Già nel 1300 troviamo piatti con il nome volgare di zillo e celo. Più avanti nel tempo, circa due secoli dopo, troviamo in un libro che descrive un banchetto, la portata con “gelatia”. Sorge comunque il sospetto che prima di diventare la raffinata composizione di oggi, la gelatina sia stata un ripiego per riutilizzare i liquidi di cottura delle carni; carni che non godevano certo di buona conservazione e che quindi venivano sempre preventivamente bollite. Ed ecco la definizione di gelatina di un anonimo cultore delle arti culinarie vissuto verso il 1600: “Bollita la carne o pesce in acqua, vino od aceto, aromatizzata, si restringe il brodo, si ricompone il tutto e il raffreddamento dà la massa ondulante”.

Le salse
Altro elemento indispensabile per ogni tipo di piatto freddo. Partono tutte da variazioni ottenute con le salse di base, veri pilastri della cucina. La nominatissima salsa besciamella, che unita alla gelatina, forma la chaud-froid, copertura in vari colori a seconda degli ingredienti contenuti, usata per carni delicate ma anche per selvaggina. La francesissima maionese che diventa rémoulade con l’aggiunta di senape, aiolì con l’aggiunta di aglio, mousseline quando è mescolata alla panna montata. E ancora la salsa americana con pomodoro e pepe di Caienna per tutti i crostacei, la salsa primaverile fatta con legumi novelli e tante tante altre.
E poi, ci sono i paté. Infinite sono le specie di paté esistenti, dal classico foie gras proveniente dal Périgord e dall’Alsazia, ai paté di cacciagione, forti di spezie e tartufo, ai semplici paté casalinghi fatti con il fegato di vitello. E’ un piatto ricco e laborioso, una mescolanza di ingredienti, se ne mangia poco proprio perché è estremamente nutriente e basta da solo alla riuscita di un pranzo. Oggi se vogliamo farlo in casa abbiamo dei validi aiutanti come le modernissime terrine infrangibili a chiusura ermetica.
Il coperchio bombato, durante la cottura trattiene il vapore, necessario a mantenere morbido l’impasto e a conservare anche nel tempo inalterati i profumi e gli aromi.

La mousse
Così più o meno potremmo definirla: qualsiasi tipo di ingrediente passato al tritatutto fino ad essere ridotto in poltiglia, ammorbidito con salse, gelatine, panna, accomodato e livellato in stampi allungati può essere chiamato con il nome di mousse. Questa più o meno la definizione tecnica, incapace però, di rendere al palato la delicatezza, la morbidezza e la fragranza di questa preparazione.

La galantina
Troviamo questo nome già nel Medioevo come forma dialettale di popoli abitanti la Dalmazia e sta a indicare carni tritate aromatizzate con pepe e pistacchi (questi ultimi forse portati dal passaggio dei Turchi conquistatori) e tartufi, arrotolate a forma di grosso salsiccione e accompagnate da gelatina.

L’aspic
Anche questo nome è di derivazione latina, viene da aspis, cioè serpente, e tale appunto era la foggia che anticamente veniva data a una preparazione fatta con pesci, carni, crostacei, verdure, addizionate all’immancabile gelatina. Oggi la foggia è cambiata, si usano per lo più stampi a forma di cono tronco che mettono maggiormente in risalto gli elementi della composizione attraverso la limpidezza della gelatina.

Il gelato
E’ senz’altro quello con la tradizione più antica. Furono infatti gli Arabi (sembra che a loro volta abbiano appreso l’arte del gelo dai Persiani di Serse e di Ciro) che portarono in Europa durante i diversi secoli della loro dominazione i famosi sorbetti a base di estratti di frutta sapientemente raffreddati. L’arte di far sorbetti era infatti un culto, unito a quello delle fontane zampillanti acqua e della fresca ombra dei portici smerlati; beni preziosi per chi come gli Arabi era nato e vissuto nell’arido e assolato deserto. Dagli Arabi, attraverso i secoli fino a noi, il gelato passa per le tavole dei regnanti, per i campi di battaglia, per le scomode gelatiere di zinco coperte di sale dell’ottocento, fino alle abili mani degli emigrati siciliani e napoletani che lo portano in America. Oggi è diventato un simbolo italiano, come gli spaghetti e la pizza, ma molte volte sembra aver perso il suo primitivo e genuino sapore.

Le spezie

Anche le spezie, come le erbe odorose, hanno impiego gastronomico antico, spiegabile non solo con ragioni strettamente culinarie, ma anche con ragioni sanitarie
I frigoriferi, lo sappiamo tutti, sono un’invenzione abbastanza recente. La conservazione dei cibi, delle carni in particolare, è quindi stata sempre una grande preoccupazione dei popoli antichi, che inventarono parecchi sistemi per evitarne la putrefazione, affumicando, mettendo sotto sale o in salamoia le riserve alimentari.

Presso i popoli asiatici erano molto diffuse le droghe che, col loro sapore acuto, potevano nascondere l’odore non certo piacevolissimo della carne..meno che fresca. Questo loro costume fu importato dai popoli classici del Mediterraneo, i greci e i latini, che ne conobbero l’esistenza grazie ai commerci dei fenici e degli arabi.
Grandissime quantità e varietà di spezie, quasi tutte vegetali, venivano usate dai cuochi dell’età imperiale: dall’anice al pepe, dai coriandoli allo zenzero, oltre al famoso silfio, considerato una panacea universale, originario della fertile terra cirenaica.
Tra l’altro, gli antichi usavano le spezie non solo nei cibi, ma anche nelle bevande (nel vino per esempio), nelle quali mettevano mirto, finocchio e mirra, zimetto, cassia.
Quanto vasto fosse nell’antichità l’impiego delle spezie è dimostrato dall’intenso commercio che se ne faceva, insieme ai papiri e ai tessuti, tra l’Oriente e Marsiglia. Oggi, facendo le debite proporzioni, il consumo di questi prodotti esotici è relativamente diminuito, se non altro perché minore è il loro uso in terapia. Notevole, invece, è il loro uso in cucina. Vediamo le più importanti fra queste spezie, fide alleate per la preparazione del bollito, dello stufato, dello stracotto e compagnia.

Incominciamo dalla paprica, che si ottiene in Ungheria dal Capsicum annuum longum, ed è coltivata anche nei paesi caldi e a clima temperato. La paprica è un’erba annuale con foglie ovali intere e fiori bianchi. I frutti, essiccati e ridotti in polvere, danno una spezia che può essere dolce, semidolce o acre, a seconda che contenga le parti placentari del pericarpo e le parti superficiali dei semi. Il colore rosso della paprica è dovuto alla capsicina contenuta nei semi. La paprica, che molti usano al posto del pepe, è molto usata negli umidi.

La noce moscata è il seme di un grosso albero sempreverde, la Myristica fragrans, che cresce nelle Filippine, nelle Indie orientali, a Sumatra e nelle Molucche. Il frutto, quello che consumiamo noi, viene da una bacca rosso-giallastra, con solco longitudinale che si apre al momento della maturazione liberando la noce, a forma di mandorla ovoidale lunga 2 cm e larga uno, con la superficie lievemente reticolata. Le noci moscate vengono preparate in due modi: all’olandese, cioè disseccate, affumicate, spogliate dell’involucro esterno e messe nell’acqua, con sale e calce, per preservarle dagli insetti; l’altro sistema è quello inglese, secondo il quale, semplicemente, le noci vengono messe al sole ad essiccare.

L’anice è il frutto della Pimpinella anisum della famiglia delle Ombrellifere, erba alta di origine orientale, coltivata anche nei paesi caldi del Mediterraneo e in Africa. L’anice ha un forte odore aromatico e sapore dolce, piccante.

I chiodi di garofano, che insieme alla noce moscata sono forse le spezie più conosciute dalla massaia italiana, sono i fiori non ancora sbocciati dell’Eugenia caryofillata, famiglia delle Mirtacee. Si tratta di un albero originario delle indie orientali ma coltivato anche in altri paesi. Le varietà commerciali del chiodo di garofano si distinguono in base alla provenienza: ci sono cioè i chiodi delle Indie orientali, i chiodi africani e quelli americani (per modo di dire, perché provengono dalle Antille, dalla Guaiana e dalla Caienna). Il chiodo di garofano contiene sostanze azotate, grassi, cellulosa. Poiché è fortemente aromatico, va usato a piccole dosi.

Il pepe è il frutto essiccato del Piper nigrum, una pianta a fusto lungo – raggiunge anche i 10 m di altezza – e sottile. Il Piper nigrum ha fiori disposti con spighe peduncolate, 20-40 frutti per spiga. Il pepe nero è quello che si ottiene da bacche raccolte non ancora mature, quando è appena iniziato l’arrossamento del frutto. Queste bacche vengono essiccate sotto vuoto. Il pepe bianco, chiamato così nonostante sia giallognolo, è quello ricavato dalle bacche mature messe a macerare nell’acqua, meglio se in acqua di mare, per 10 giorni. Dopo questo bagno prolungato, le bacche vengono decorticate a mano o a macchina. Il pepe contiene un olio volatile che gli dà quell’odore inconfondibile e una sostanza azotata alcaloidea, alla quale si deve il tipico, inconfondibile sapore del pepe.

Lo zenzero è il rizoma dello Zingiber, una pianta erbacea originaria dell’Asia. Quando la pianta comincia ad avvizzire si raccolgono i rizomi, che si lavorano con acqua, si essicano e si raschiano dopo averli imbiancati con anidride solforosa. Lo zenzero ha un forte odore aromatico, lievemente bruciante.

La cannella, decisamente un profumo singolare, è la corteccia di una pianta originaria di Ceylon, sempreverde. La corteccia viene staccata con incisioni longitudinali e poi raschiata per eliminare lo strato tuberoso, quindi arrotolata in fogli sottili e messa a seccare all’ombra. Le qualità commerciali di cannella sono molte, ma le due più importanti sono la cannella ceylon e la cannella china. Per l’uso, solitamente, la cannella viene frantumata. E’ importante ricordare che la cannella in polvere è quasi sempre di qualità scadente. Anche la cannella, come il chiodo di garofano, è fortemente aromatica e va usata con parsimonia.

La cottura delle uova

Gli esperti di gastronomia dicono che le ricette con le uova sono infinite: è vero, l’uovo è il jolly della cucina, perché serve in tutte le occasioni, dall’antipasto al dolce, si può usare per il consumo o anche solo per la decorazione. Ma, sempre gli esperti dicono anche che i modi fondamentali per cuocere questo insostituibile alimento sono solo nove. Vediamoli.

Uovo al guscio: è quello in cui il tuorlo è appena tiepido e il bianco appena indurito; è digeribilissimo, molto adatto per i bambini. Per cuocerlo occorre mettere l’uovo in acqua bollente per un minuto. Spegnere e lasciare nell’acqua per altri due minuti.

Uovo sodo: è il “classico”, anche se in effetti tutti lo fanno senza conoscere con precisione le regole per questo tipo di cottura. Per prepararlo si mette sul fuoco un recipiente con molta acqua: quando bolle si immerge l’uovo con l’aiuto di un cucchiaio per evitare che l’uovo si rompa quando si adagia sul fondo. Ricordate che le uova sode, appena tolte dal recipiente di cottura, vanno messe sotto l’acqua fredda, perché in tal modo sono poi più facili da sgusciare. Tempo di cottura per l’uovo sodo: una decina di minuti.

Uovo barzotto (o barzotto o semiduro): è simile all’uovo sodo, ha solo un tempo di cottura inferiore (4 o 5 minuti): l’albume si dovrà presentare sodo e il tuorlo ancora un po’ morbido.

Uovo affogato: è quello che si cuoce nell’acqua, senza il guscio. E’ digeribilissimo e può essere consumato con l’accompagnamento di salse. Per prepararlo occorre una pentola piuttosto larga nella quale ci siano acqua salata e un cucchiaino di aceto. Quando l’acqua giunge a ebollizione, occorre abbassare la fiamma, mantenendo un’ebollizione appena accennata, versare con delicatezza l’uovo e lasciarvelo per 3 minuti. Si deve poi spegnere la fiamma e togliere l’uovo col mestolo forato, immergendolo in acqua fredda per fermare la cottura. Alcune avvertenze: mai far cadere l’uovo dall’alto, perché il tuorlo potrebbe rompersi; non usare la forchetta per toglierlo dall’acqua e non far cuocere troppe uova contemporaneamente. Per una migliore presentazione, prima di servire, si possono pareggiare i bordi delle uova affogate con un bicchiere capovolto.

Uovo al piatto: si prepara imburrando un tegame che può andare in forno, dove si fa scivolare l’uovo senza romperlo. Si sala solo il bianco. In un recipiente a parte si fa fondere il burro da versare sull’uovo. Si mette il tutto in forno caldo per circa 5 minuti.

Uovo fritto: molti lo chiamano all’occhio di bue; è quello cotto sulla fiamma del gas facendo fondere il burro nel tegamino e versandovi delicatamente l’uovo. Si sala e si lascia cuocere a fuoco moderato per 3 minuti, versandovi sopra ogni tanto un poco del grasso di cottura. Se si vuole il tuorlo poco rappreso ma con il bordo croccante, si cuoce prima l’albume, e poi si fa scivolare nel centro il tuorlo, cuocendolo un solo minuto.

Uovo in tazzina: detto anche “in cocotte”, è quello cotto in speciali cocottine, che possono però anche essere sostituite da comuni tazzine resistenti al fuoco. Per la preparazione occorre ungere le tazzine col burro, scaldarle in acqua bollente e mettervi le uova con un fiocchetto di burro. Le tazzine vanno quindi disposte in un recipiente largo pieno di acqua calda fino a metà della loro altezza. Si mette in forno caldo per una decina di minuti.

Uovo strapazzato: diffusissimo, va battuto quel tanto che basta e mescolare il tuorlo all’albume. Va cotto con pochissimo burro caldo e rimescolato, a fuoco moderato, per 2-3 minuti. Si aggiunge ancora un pezzetto di burro, si mescola, si toglie subito dal fuoco e si versa su un piatto da portata per fermarne la cottura.

La frittata: è buona comunque fatta, semplice o farcita, alta o bassa, fredda o calda. Per prepararla basta battere le uova fino a quando formano un po’ di schiuma e cuocerla in condimento bollente nell’apposita padella.

L’omelette: è una frittata sulla quale si posa generalmente un ripieno (può anche essere senza ripieno) e di cui si ripiegano i due lembi sovrapponendoli un poco.

Uova fresche e conservate

La freschezza dell’uovo ha la sua importanza.
Le stagioni migliori per consumarlo sono la primavera e l’estate; durante l’inverno, infatti, la “catena di montaggio” delle galline diminuisce sensibilmente il ritmo di lavorazione e la produzione cala. Pertanto, durante i mesi freddi consumiamo le uova che le grandi industrie hanno acquistato in primavera conservandole in maniera tale da poter rifornire il mercato nei “periodi di magra”.

I sistemi per conservare le uova sono molti: tralasceremo quelli più rudimentali, che speriamo ormai abbandonati, per parlare di quello più razionale e avanzato.
L’uovo è delicato e acquista con molta facilità i cattivi odori che assorbe attraverso la porosità del guscio. Perciò, affinché il suo sapore rimanga inalterato, è necessario che l’uovo venga conservato in un ambiente pulito, alla giusta umidità.
Generalmente le uova vengono conservate a temperatura zero, per rallentare i processi di invecchiamento, in magazzini dove l’aria è purificata dagli ionizzatori, che provvedono anche a mantenere l’umidità non superiore all’80%.
E’ evidente, però, che l’uovo conservato in queste condizioni ambientali, che potremmo definire ottimali, si mantiene bene se è stato immagazzinato fresco. Nel caso in cui, al momento dell’entrata in frigorifero, fosse già poco fresco, il suo stato di salute non può certo migliorare. Prima dell’immagazzinamento si usa quindi svolgere l’operazione “speratura”. In che cosa consiste? In un ambiente scuro, sul tipo di quello impiegato dai fotografi per lo sviluppo e la stampa delle foto, si fa passare l’uovo davanti a una sorgente luminosa, che consente di vedere attraverso la trasparenza del guscio le eventuali alterazioni dell’albume e del tuorlo.
L’uovo fresco ha la bolla d’aria piccolissima, qualche millimetro, e il tuorlo sta al centro dell’albume, che è una massa compatta, densa, di colore molto chiaro. Fino a qualche anno fa, quando tutto il ritmo della vita era meno frenetico, anche salumieri e lattai disponevano di una lampadina vicino al banco e, prima di consegnarci il pacchetto delle uova acquistate, compivano quell’operazione un po’ misteriosa che ha sempre affascinato i ragazzini. Chissà quanti di noi si sono domandati come facessero, in così pochi secondi, a vedere bene dentro l’uovo per valutarne la freschezza.
Infatti occorre controllare l’albume, per sentire se è acquoso, vedere la grandezza della bolla d’aria e la posizione del tuorlo che, spostato verso l’alto, indica una certa “vecchiaia”. E quest’ultimo fatto spiega perché, quando facciamo le uova sode, spesso troviamo il tuorlo tutto da una parte, quasi attaccato al guscio.
Vediamo dunque come si può stabilire la freschezza dell’uovo, il più delle volte relativa, soprattutto per chi abita nelle grandi città e non possiede una fonte diretta per approvvigionarsi. L’uovo fresco è pesante perché è pieno e, se lo scuotiamo lievemente, non sentiamo rumore, mentre se è vecchio fa una specie di sciacquio: è l’albume, divenuto acquoso, che sbatte contro le pareti del guscio.
L’uovo fresco, inoltre, ha un bel guscio bianco o comunque di colore deciso e di grana compatta, senza macchie e impurità. A questo proposito occorrerà dire che non c’è differenza, da nessun punto di vista, tra l’uovo a guscio chiaro e quello a guscio scuro. E’ invece importante il colore del tuorlo: se è troppo pallido indica che la gallina produttrice è stata allevata con un cattivo nutrimento.
Altrettanto importante è l’aspetto del guscio: occorre diffidare dell’uovo sporco, perché proprio a causa della sua porosità il guscio assorbe odori e sapori ed è quindi inevitabile che, se sporco, abbia assorbito qualcosa delle sostanze che lo imbrattano.

Sistemi di cottura degli arrosti

Esistono vari metodi di cottura per avere un buon arrosto.

Cottura al forno
deve sempre avvenire a temperatura inizialmente molto alta, in modo che si formi all’esterno uno strato croccante che imprigiona i succhi interni; il forno ideale è quello provvisto di termostato che permette di mantenere una temperatura costante: in caso contrario occorre controllare che la carne non bruci, rivoltandola ogni tanto e irrorandola spesso con il suo fondo di cottura. Questo tipo di cottura è da preferirsi in molti casi a quella condotta sul fuoco: con quest’ultimo sistema il calore viene solo dal basso, mentre nel forno la carne viene avvolta da un calore uniforme che la cuoce perfettamente in meno tempo senza esigere particolari attenzioni da parte di chi cucina.

Cottura al cartoccio
è un sistema di cottura particolarmente adatto per pollame; l’animale viene condito con pochissimo grasso (in taluni casi non se ne fa assolutamente uso), profumato con qualche erba aromatica e avvolto strettamente in un cartoccio di carta oleata e di carta d’alluminio: se si lasciano fessure si compromette il risultato della preparazione. Così avvolta la carne cuoce nel suo grasso sfruttandolo completamente e risulta molto più digeribile e saporita; se si desidera una carne molto rosolata si apre il cartoccio al termine della cottura, si mette l’animale in una teglia, unendo anche il suo sughetto e si passa in forno molto caldo per qualche minuto. L’ideale sarebbe comunque portare in tavola su un piatto di portata il cartoccio ancora chiuso per non disperdere l’aroma della preparazione.

Cottura alla creta
come la cottura al cartoccio, è particolarmente indicata per pollame, soprattutto polli e faraone, le cui carni divengono morbidissime e molto saporite. Dopo aver avvolto l’animale in un foglio di carta oleata, lo si mette nell’apposito cuocipollo in creta, che si trova in commercio oppure s’impasta della creta con un po’ di acqua e la si modella tutt’intorno al cartoccio racchiudendovelo completamente: questo involucro dovrà poi essere rotto con un martello un attimo prima di servire in tavola (per ovvie ragioni si sconsiglia di fare questa operazione davanti ai commensali). Una variante della cottura alla creta può essere considerata la cottura sotto la sabbia; ambedue i tipi di cottura hanno origini antichissime. I beduini arabi, per esempio, usano ancora oggi questo metodo millenario: coprono di sabbia asciutta un agnello e vi accendono sopra un gran fuoco; quando questo si è esaurito, disseppelliscono l’animale e lo mangiano. Anche in Sardegna i pastori usano ancora un metodo di antica tradizione, straordinariamente efficace; scavano una fossa grande quanto l’animale che dovrà contenere (una lepre, un coniglio, una capra ecc.), la tappezzano completamente di pietre levigate, vi depongono la preda, scuoiata, pulita e insaporita con erbe odorose, infine coprono tutto con altre pietre, vi ammassano sopra grandi fascine di legna secca e fanno il fuoco. Alla fine tirano fuori da questo vero e proprio forno improvvisato un animale cotto stupendamente nel proprio grasso, con carni tenere, asciutte morbide e profumate.

Cottura al sale
è adatta per roast-beef e pollame; consiste nel fare uno strato di sale grosso in una casseruola, appoggiarvi la carne e ricoprirla completamente con altro sale grosso; la cottura dovrà naturalmente essere fatta in forno caldissimo. Al termine della cottura la massa di sale, che si sarà solidificata, dovrà essere rotta con un batticarne, la carne va estratta con decisione e le tracce di sale eliminate con una pennellessa (se si vuole proteggerla completamente dal sale avvolgerla, prima della cottura, in un foglio di carta oleata). Anche con questo sistema la carne cuoce praticamente nel suo grasso.

Quest’ultimo riferimento ci porta a un’altra considerazione fondamentale: non è possibile cucinare arrosto un pezzo di carne magra. Rischieremmo di trovarci nel piatto un qualche cosa di coriaceo, stopposo, decisamente immangiabile. E’ questo un fatto da tenere sempre presente: un bel pezzo di carne per arrosto deve avere le sue brave parti grasse e se non ne ha si provvede a bucherellarla e imbottirla con striscioline di lardo o pancetta.

Due parole infine sull’arrosto morto: si tratta della cottura della carne in casseruola, protratta a calore moderato, a recipiente coperto, con l’aggiunta, di solito, di un poco di brodo o di altro liquido; è adatta per questo tipo di cottura soprattutto la carne di vitello e tutte le carni che risultano un po’ asciutte.

La preparazione dell’arrosto

Se la carne ha le sue giuste dosi di grasso, non occorre niente.
Se abbiamo invece parti completamente magre o animali interi particolarmente coriacei è allora necessario compiere l’operazione di arricchirli di quel grasso che manca. Ciò può avvenire in due modi: il primo è detto “lardellare” o “steccare” e consiste nel perforare la carne con un apposito ago, reperibile in tutti i buoni negozi di casalinghi, e nell’imbottirla di listerelle di lardo o di altri ingredienti grassi; il secondo è detto invece “bardare” e si pratica avvolgendo la carne o l’animale in sottili fette di pancetta o di prosciutto grasso. In questo caso è necessario imbrigliare il cibo da cuocere con del filo neutro da cucina che verrà tolto a fine cottura. La legatura è utile, indipendentemente dalla presenza o meno della bardatura, anche per evitare che durante l’esposizione al calore la vivanda si deformi. Ciò vale soprattutto per i volatili che debbono rimanere con ali e zampe raccolte e aderenti al corpo.

Esistono alcune regole-base che non bisogna mai dimenticare, tanto se si prepara un arrosto allo spiedo che al forno.
1) è fondamentale che la carne riceva una prima, violenta scottata capace di provocare in superficie la crosticina indispensabile per impedire la fuoriuscita dei succhi. Per questo motivo il cibo va avvicinato al fuoco o va messo nel forno quando il calore è già elevato. Grave errore sarebbe, per esempio, infornare a freddo e lasciare che la carne subisca la lenta evoluzione termica del forno. Gran parte dei suoi umori energetici andrebbe irreparabilmente perduta e la carne stessa rimarrebbe considerevolmente più fibrosa e dura.
2) per gli stessi motivi esposti qui sopra è opportuno non bucare assolutamente mai la carne nella prima fase della cottura. Soltanto all’ultimo, ma proprio all’ultimo, è consentito saggiare con la punta della forchetta per controllare la cottura. Ricordiamoci che un arrosto è perfetto quando la forchetta vi penetra agevolmente senza incontrare resistenza.
3) nel caso di animali o pezzi di carne “bardati” con fette di pancetta o di prosciutto (è, questo, un tipo di preparazione adatto più la forno che allo spiedo) bisognerà togliere la bardatura dieci minuti prima della fine, per consentire alla carne di prender colore.
4) se si cuoce allo spiedo, dinanzi a un camino, si deve mettere sotto la carne la cosiddetta “leccarda”, un recipiente apposito che serve a raccogliere il sugo gocciolante e il grasso. Per ammorbidire la carne in cottura sarà opportuno irrorarla di tanto in tanto con il fondo che si raccoglie nella “leccarda” o, se questo non bastasse, con poco olio d’oliva.
5) se si cuoce in forno bisogna ridurre l’intensità del calore dopo la prima scottata. La carne di bue, ad esempio, la si farà rosolare a 250° e si continuerà la cottura a 200°. La temperatura ottimale per il vitello e per l’agnello è di 200°, mentre per il pollame e la selvaggina oscilla tra i 200° e i 220°.

TEMPI DI COTTURA
Vale sempre la regola empirica ma infallibile della prova con la forchetta a fine cottura. Tuttavia diamo qui di seguito dei tempi indicativi calcolati tutti per 500 gr di carne.

Agnello 25 minuti
Anitra 30 minuti
Coniglio 25 minuti
Costata di manzo 15 minuti
Filetto intero 15 minuti
Maiale 30 minuti
Oca 25 minuti
Piccione 20 minuti
Pollo 20 minuti
Selvaggina 30 minuti
Tacchino 30 minuti
Vitello 25 minuti

Se i pezzi di carne a disposizione superano il peso indicato, si deve com’è ovvio aumentare in proporzione i tempi. Così per un pollo da 1 kg e mezzo si stabilirà circa un’ora di cottura.
Al termine della cottura è consigliabile lasciar riposare l’arrosto per un quarto d’ora, perché se lo si affetta caldissimo la carne si sbriciola malamente.

Gli aromi e il vino per gli arrosti

Vi sono alcune erbe entrate ormai così radicalmente nell’uso comune da rendere inconcepibile la preparazione di un piatto senza di loro.

Ci riferiamo a rosmarino, salvia, timo, maggiorana, aglio, cipolla, ginepro, peperoncino, lauro e origano. E’ sempre bene tenerne in casa una scorta: freschi, se è possibile, altrimenti in polvere, contenuti in scatolette o in boccettine di vetro. Le erbe di uso più comune sono rosmarino, salvia e lauro, consigliabili con tutte le carni. Le altre citate, ad esclusione dell’origano, adatto più ai pesci, sono più indicate per la selvaggina.

Non esistono dosi possibili: in questo caso ci si deve fidare della propria sensibilità di gastronomi e, anche, della propria esperienza. E’ consigliabile unire le erbe all’arrosto nella prima fase della cottura, per dar modo alla carne di assorbirne il profumo, ma si deve fare attenzione a non eccedere perché se un giusto grado di aroma migliora il piatto, un eccesso lo può rovinare irreparabilmente.

Oltre alle erbe abbiamo a disposizione le cosiddette droghe o “spezie” che dir si voglia: pepe bianco e nero, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, paprica e zenzero. Se le erbe aromatiche è meglio metterle all’inizio della cottura, il discorso è inverso per le spezie che, in una lunga esposizione al calore, perderebbero totalmente il loro profumo e le loro caratteristiche. Aggiungiamole dunque verso la fine, un quarto d’ora o venti minuti prima di concludere la preparazione, e anche in questo caso impariamo a dosarle con molta attenzione: un piatto cucinato con troppe erbe aromatiche è cattivo ma, tutto sommato, mangiabile. Un piatto con troppe spezie è da buttare via.

Chi non prende in considerazione il vino, difficilmente potrà gustare un buon arrosto perché, sia nella cottura in forno che nella cottura sul fornello, il vino va aggiunto quasi sempre. Ed ecco, a questo proposito, alcune regole di base: il vino deve essere quasi sempre bianco secco; raramente rosso e generalmente solo per la selvaggina da pelo; si versa sulla carne quando questa si è completamente rosolata e il fuoco è vivace, in modo che insaporisca l’arrosto ed evapori senza lasciargli un gusto vinoso troppo acuto (dopo aver irrorato la carne si lascerà scoperchiato il recipiente). Mezzo bicchiere di vino basta a insaporire un kg di arrosto circa. Una cosa è molto importante: non usare mai a questo scopo vini di dubbia provenienza o di qualità molto scadente. Si rovinerebbe tutto. Il vino va senz’altro aggiunto a metà cottura: se ci si dimentica, meglio desistere piuttosto che unirlo alla fine, aggiungerebbe inutilmente umidità rammollendo l’appetitosissima crosticina.

Infine, per restare in tema, diciamo due parole sui vini da servire con l’arrosto. Spesso la padrona di casa, di fronte a questi problemi, rimane perplessa e non sa che fare. Ecco dunque qualche regola da tener sempre presente.
La cottura arrosto, lo abbiamo visto, è cottura completa, che ha il potere di non disperdere nessuna delle caratteristiche nutrizionali della carne; i sapori, inoltre, sono abbastanza decisi, vuoi per le particolarità stesse della carne, vuoi per gli aromi impiegati nella preparazione. E’ quindi indispensabile un vino rosso, piuttosto robusto, di spiccato sapore.

Le carni da arrosto

Un buon arrosto deve cuocere a lungo. Ma le esigenze della massaia moderna sono tali da rendere impensabile, salvo rare occasioni, tale possibilità. E’ perciò necessario orientare la scelta, quando si va a fare acquisti dal macellaio, verso carni abbastanza tenere da garantire una perfetta cottura nel minor tempo possibile. E’ tanto più indispensabile, quindi, avere carni provviste di una certa quantità di grasso. Se si domanda al macellaio un pezzo di “arrosto” ci vedremo consegnare, quasi sempre, della punta di petto disossata e legata, già pronta per essere messa a cottura. Ma esistono vari altri tipi di carne. Vediamo di classificarli:

- vitello: spalla disossata, coscia, carrè.
- manzo: filetto, controfiletto, lombata, noce e sottonoce. Sono i tagli di maggior pregio, ma per taluni, come per esempio per la noce, è consigliabile, prima di avviare la cottura, una attenta lardellatura.
- maiale: filetto, spalla, carrè, prosciutto. Se è un maialino da latte, di piccole dimensioni, lo si può arrostire intero e sarà una autentica leccornia.
- agnello: carrè, cosciotti, sella, barone. Anche in questo caso, se si tratta di animali appena nati, li si può cucinare interi.
- coniglio: la carne del coniglio, leggera e tenera di per se stessa, è fra le migliori per una cottura arrosto. L’animale può essere cucinato intero o a pezzi e si presta, in modo particolare, per il forno.
- capponi e polli: vanno preparati interi o a pezzi.
- selvaggina: il termine è vasto, e comprende cinghiali, caprioli, camosci, fagiani, lepri, anitre, pernici, beccacce ecc. Le preparazioni sono molteplici: spiedo, forno, griglia, a seconda della dimensione della preda.

(dal 2016) Ricette d'Italia - Template di Blogger modificato da WM Ricette d'Italia